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Avatar di paola zermian

Buongiorno. Come sempre sapete dare parola al sentire. Il mio piccolo mondo che ci prova è il riflesso di ciò che descrivete. Ci incontriamo, progettiamo, discutiamo, ci informiamo. Qualche volta addirittura qualche piccola storia accade. Ma il prelievo energetico dello sgomento è tale che si fatica a non essere tentati di addormentarsi sul divano e lasciare che tutto accada. Grazie.

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Avatar di Nathan Ranga 🏳️‍🌈 🇺🇦 🇪🇺

«Che fare?» chiedete. Credo di provare la stessa “fatica“ e infatti per la prima volta non saró al Salone dopo averlo frequentato per 36 anni di fila, spesso in più giornate. Parlate del cinismo di chi negli incontri che si tengono al Salone predica bene e poi a tu per tu fa battute? Al Salone si sono sempre ascoltati interventi che grondavano retorica e frasi fatte. Se davano fastidio prima oggi appaiono superatissimi e quindi ancora meno convincenti. Se solo avessimo avuto più onestà intellettuale ce lo saremmo detti anche prima… Solo che…. prima non si poteva! Mi viene in mente il Robert Graves di “Io, Claudio“ quando fa parlare il cinico imperatore Claudio che scrive le sue memorie ma le terrà segrete e riflette: come fai a parlare male pubblicamente dei presunti grandi di qualche generazione precedente quando ormai sono diventati oggetto di una devozione pubblica e acritica? Rischi il linciaggio. È ovvio che al Salone per 30 anni si sono fatti incontri privi di vero spessore salvo in rarissimi casi. Perché l’intento era volutamente “divulgativo“ … E qui andrebbe fatta una riflessione sulla distinzione tra “buona“ divulgazione e banalizzazione, e magari riflettere sui rischi intrinseci a ogni divulgazione. Forse già prima c’era un certo cinismo: quello di chi poneva la divulgazione al servizio di uno scopo finale di natura commerciale e farsi capire dalle masse dei visitatori del Salone serviva innanzitutto ad aiutare le case editrici a vendere libri. Eppure i miei frequenti acquisti al Salone mi guardano intonsi dagli scaffali di casa. Non li ho mai letti. Nemmeno uno. Direi che sui titoli acquistati al Salone cala una sorta di maledizione (una specie di “maledizione punica“: quella di cui parlano gli oracoli sibillini in “Io, Claudio“ di Graves. Sempre lui, perché è uno spassoso cinico compendio di italianità pieno di humor sarcastico e che non a caso in Italia non abbiamo mai saputo fare). Ma più che una maledizione nel caso degli acquisti al Salone credo che c’entri un poco quello stesso discorso che si faceva un tempo sui libri di studio fotocopiati: se li fotocopi poi non li studi perché ti illudi che il possesso materiale coincida con l’appropriazione intellettuale (forse era Eco a dirlo?). Per farla breve: dopo 37 anni di Salone ci accorgiamo che siamo alla fine di un’era, di un ciclo … Ma sono gli ultimi giorni di Pompei? Oppure non è la catastrofe quella che ci sta davanti, piuttosto è che le vecchie e troppo collaudate formule retoriche da Salone si sono definitivamente svuotate e ci appaiono in tutta la loro pochezza. Forse è perché abitiamo «nel regno incerto in cui i vecchi idoli sono fuggiti e non ci sono ancora i nuovi». Fortuna che ora c’è Gemini che mi aiuta a trovare la citazione originale da Hölderlin…

Insomma: direi che se ci pensiamo potremmo rimboccarci le maniche e cominciare a riflettere. Possono venirne fuori cose diversissime, come:

1. Resuscitare una certa mistica heideggeriana dell’attesa mentre si attraversano tempi bui. Per es. lo Heidegger che nella conferenza del ‘46  “Perché i poeti?“ diceva: «Non solo gli dèi e Dio sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale. Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza.» (anche qui per fortuna che c’è Gemini che mi ricorda la filiazione da Hölderlin a Heidegger). Ma così produrremmo riflessioni inutili, non originali, e quindi vuote come le parole retoriche che fino ad ora hanno trionfato negli spazi del Salone e come quelle sono facilmente vendibili;

Oppure potremmo:

2. Ricordarci che ora abbiamo anche tante altre cose molto più utili degli incontri inutilmente “divulgativi“ del Salone. Per es. quella cosa che in Italia è tabù e che si chiama Z-Library: la biblioteca digitale dei “Piratii” scandinavi: circa 14 milioni di libri digitalizzati e accessibili gratuitamente in download! Nata negli Stati Uniti e poi sequestrata dal FBI ma fortunatamente rinata in Europa., Z-Library è una “Shadow library“ come la consorella Anna’s Archive. Si raggiunge Z-library da https://z-library.sk/ Ma in Italia può essere necessaria una VPN. Z-Library non vi chiederà di pagare un costoso biglietto per entrare e in più lí non si “compra“ nulla perché è tutto gratuito. Dite che fa concorrenza sleale agli editori? No, perché fa lo stesso lavoro che ha sempre fatto e fa tutt’ora una biblioteca di pubblica lettura: mettere a disposizione di chiunque la cultura senza chiedere nulla. Certo lo fa con gli strumenti odierni offerti dalla tecnologia digitale. Dite che infrange la legge sul copyright? La legislazione ha sempre una dimensione relativa ed è (o dovrebbe essere) in evoluzione. Le leggi dovrebbero aggiornarsi e possono cambiare in meglio perlomeno quando non esistono potenti lobbies che riescono a fare in modo che rimangano inalterate anche in contesti diversissimi. Considerare la legislazione come editti sospesi in uno spazio neutro fuori dai conflitti economico-sociali non ha senso. Anche gli schiavi neri che negli Stati del Sud fuggivano verso il nord infrangevano la legge. Come schiavi erano una proprietà e non erano liberi. Dopo il 1865 e la sconfitta degli Stati del Sud la legislazione americana sulla schiavitù si capovolge insieme a quella che prima era l’opposizione tra “legale“ e “illegale“. Quindi? Quindi anche il Salone dove trionfa l’attuale assetto giuridico del copyright e tutto è a pagamento ormai è lo specchio di una realtà superata. Non ci si può stupire che ormai generi stanchezza. Che andrebbe intesa come: senso di scollamento dalle innovazioni che vengono prodotte altrove.

E aggiungerei:

3. Se non hai i files dei libri digitalizzati che scarichi da Z-Library o da Anna’s Archive come fai a usare i libri come fonti di alta qualità per analisi condotte con una piattaforma IA? Ormai le Shadow libraires come Z-Library e Anna’s Archive sono indispensabili anche per l’uso della IA. Il Salone del Libro invece è estraneo rispetto a queste fondamentali relazioni di scambio digitale tra fonti e servizi computazionali. Converrebbe rifletterci sopra.

4. Ma allora «Che fare» del Salone e più in generale che fare se formule ormai invecchiate provocano stanchezza, demotivazione, vaga impressione di muoversi tra le retrovie della Storia? Magari sarebbe utile iniziare a riconoscere che si è esaurita la formula pop su cui si regge il Salone da ormai 30 anni: quella inventata da Beniamino Placido quando dal 1993 al 1997 fu responsabile culturale del Salone del libro. Allora pareva innovativa questa formula che mescola alto e basso, cultura e trash, Carrère e gli autori di megaseller come la sua compatriota V. Perrin, i rappresentanti della più elevata cultura e i comici che “scrivono“ libri. Riflettiamo sulle origini di quella formula. Era nata negli anni ‘80 in TV: cose come Roberto d’Agostino che impersonava l’intellettuale da salotto romano e parlava dell’“Insostenibile leggerezza dell’essere“ di Kundera nella trasmissione di Arbore “Quelli della notte“ (1985); Enrico Ghezzi che su RaiTre proponeva rassegne di film a mezzanotte dove c’era Ozu ma anche i film sugli Zombie. Tutto nello stesso calderone. Fine di ogni giudizio di valore percepito ormai come “noioso“. L’orizzontalità assoluta del populismo culturale inizia lì. Allora l’ala culturale dei “giovani rampanti” della sinistra italiana era stufa di giudizi ideologici ispirati dalla Scuola di Francoforte e voleva sdoganare (per sé’ e in secondo luogo per gli altri) i guilty pleasures dei gusti trash. Anche perché così si trovava un posto al sole presentandosi come innovatrice rispetto ai tromboni della sinistra più ortodossa e Francofortese. Poi è caduto il muro, poi è venuto il trionfo del mix alto/basso con Fabio Fazio: Gorbachev o Umberto Eco o il Papa insieme a Orietta Berti e Fabio Volo fino a a Edoardo Prati… Ma oggi questa formula “culturale“ (?) che ha radici televisive funziona ancora davvero al Salone? No. Perché se funziona è solo all’interno di una nicchia forse neanche molto giovane. In ogni caso non è innovativa e quindi non ha la capacità di rinnovare i modelli culturali e sfondare presso altre nicchie. Ormai è superata e converrebbe riconoscere tutti i suoi limiti come le sue radici in un passato non troppo lontano. Ma oggi si può criticare Beniamino Placido o non si puó come non si poteva criticare l’Augusto di “Io, Claudio“? Quanto siamo diventati incapaci di fare l’indispensabile critica ai “padri“, per quanto siano “nobili“ e innovatori?… ma questo 30 anni fa! Quanto siamo diventati ingessati?

A me pare che se ci si libera di paraocchi ormai inutili e pericolosi di cose da fare ce ne siano tante.

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