Il teatro sotto attacco. Perché non basta difendersi
Lo spazio teatrale si rivolge alla comunità che c’è, o a quella che viene?
I tagli ministeriali al teatro contemporaneo hanno innescato un dibattito che va ben oltre la contingenza politica. Giorgiomaria Cornelio, poeta e regista teatrale, affronta nella riflessione che segue una questione decisiva: come può il teatro rispondere agli attacchi populisti senza cadere né nell’adeguamento né nell’autoreferenzialità? La sua riflessione propone una via che attraversa la crisi invece di negarla o risolverla, ridefinendo radicalmente il senso stesso di ‘servizio pubblico’ della cultura.
In Italia è in corso un vero e proprio stato di “disastro culturale”.
Afferma così l’assemblea_lavorat_spettacolo, subito dopo l’uscita dei risultati dei decreti contenenti le valutazioni ministeriali su teatro e festival, che rivelano uno scenario desolante:
«festival, progetti di formazione storici, in molti casi con gran parte delle attività già svolte, sono stati cancellati o declassati secondo criteri poco trasparenti e improntati a un’idea di repertorio, tradizione, intrattenimento. […] A realtà che lavorano da anni sono stati dati punteggi incomprensibili. […] Nella COMMISSIONE PROSA 3 commissari su 7 si sono dimessi. I 4 rimanenti, di nomina governativa, spingono per declassamenti e cancellazioni arbitrarie su logiche puramente ideologiche».
Caso emblematico, insieme al declassamento del Teatro Pergola di Firenze, è quello di Santarcangelo Festival, una delle realtà più importanti (e longeve) a livello teatrale italiano, che si è vista assegnare un punteggio bassissimo. Alle numerose critiche insorte (Cristian Raimo ha parlato di una dichiarazione di guerra estetica, che preannuncia una guerra di lunga durata e efficace), ha risposto la deputata del territorio di Fratelli d’Italia Beatriz Colombo con queste parole: «Non esistono festival intoccabili. [...] Negli anni, questo festival ha ospitato anche spettacoli controversi, come l’esibizione di un ballerino nudo che orinava in piazza davanti ai bambini, o spettacoli a sfondo pro-gender, estremamente controversi, anche gli spettacoli ispirati a tematiche come l’ecosessualità. Possiamo e dobbiamo porci una domanda: è davvero questa la cultura che lo Stato deve finanziare con risorse?». Spinge sullo stesso punto anche Alleanza Civica, chiedendo spettacoli «lontani dalla propaganda a senso unico, più vicini alla nostra gente».
Il teatro si rivolge alla comunità che c’è, o a quella che viene?
Questa è una pagina di cultura disastrosa che però lascia passare un’interrogazione fondamentale: il teatro si rivolge alla comunità che c’è, o a quella che viene? Sfonda le pareti del reale, oppure vi si appoggia? È chiaro che la risposta, per molti, debba continuare ad essere: la comunità che viene, quella che non sappiamo vedere. Ma l’attacco subìto ci dice anche che ciò che è stato fatto fin qui non era sufficiente, che le “esigenze dei cittadini erano diverse” - o meglio: che una parte dell’immaginario messo in campo non ha funzionato.
Perché?
Come ripartire da questo enorme attacco, senza cedere all’enormità della catastrofe? Come operare un affondo atmosferico, come esplorare quest’aria di rigetto in cui comunque siamo immersi? Come confrontarsi con il dispositivo incantatorio e populista che viene chiamato “nostra gente”?
Nei discorsi di attacco a Santarcangelo Festival (e a molte realtà simili) si incontrano rigetto e ottusità, ma anche retromania politica (“Santarcangelo deve tornare ad essere...”). Intervengono così Barnaba Borghini, Gabriele Stanchini e Jenny Dolci, consiglieri di Alleanza Civica: «il Festival di Santarcangelo ha una lunga tradizione. Tuttavia quella stessa storia, oggi, pone l'amministrazione comunale e non solo, nella condizione di affrontare responsabilità che non possono più essere eluse. È infatti da una decina d’anni che tanti santarcangiolesi denunciano comprensibilmente, assieme all'opposizione, l’uso strumentale che è stato fatto del Festival, trasformato in un palcoscenico per la propaganda politica, unidirezionale e sempre più sganciata dalle reali esigenze della cittadinanza».
Siamo di nuovo nel pericolo della nostalgia, in una specie di trumpismo che rivela anche il potenziale immaginifico di questo ritorno a un passato “mai stato”, più vicino alle reali esigenze della cittadinanza; passato reclamato, con altre prospettive, anche da una sinistra nostalgica dei bei tempi andati, in cui il teatro era davvero “rilevante”. Ma è forse anche qui che occorre rimarcare il punto. Che il teatro sia a pezzi è evidente. Non c’è “piccolo” aggiustamento che regga. Bisogna però anche chiedersi: in quale momento il gesto teatrale ha cessato di essere “percepito” come rilevante nel dibattito pubblico? Con quale frequenza opere teatrali e performative vengono prese a “misura” per confrontarsi con quanto accade in Italia? Perché questo smagrimento del discorso?
C’è un’importanza nell’essere irrilevanti, divisivi, impopolari: ma questa importanza non può stare nella dichiarata superiorità
C’è un’importanza nell’essere irrilevanti, divisivi, impopolari: ma questa importanza non può stare nella dichiarata superiorità, nel contatto unicamente “celeste” con la giustezza delle proprie posizioni. Viviamo sempre più in un’atmosfera tossica (inquinamento ambientale, culturale, degli immaginari). Dichiararsi fuori da tutto questo non basta; non c'è fuoriuscita assoluta, patto di separatezza, escapismo, igiene. È piuttosto proprio il fatto di essere implicati in un momento comune di disastro che ci deve spingere a restituire attenzione alla tossicità, e insieme ai dispositivi incantatorii, per articolare linguaggi capaci da una parte di interrompere l'incantamento (di rifiutare il dominio dei nuovi tiranni), e dall’altra di fare di questa stessa tossicità una forma di radicale interrogazione alle nostre consuetudini, ai nostri immaginari - anche quelli che pensavamo più “puri” ed “efficaci”.
Se ciò che viene recriminato oggi a festival come Santarcangelo è la loro supposta cripticità, l'incapacità di servire a uno scopo pubblico, rivolgendosi a un pubblico ristretto e ideologizzato, la soluzione non può essere un facile aggiustamento nell’accontentare questa richiesta populista, e neppure una negazione totale della questione. Il teatro abita da sempre quella zona “infetta” della discussione che non risolve le aporie, ma ne mostra i funzionamenti, le fratture, le ambivalenze, che nessun discorso totalizzante può sanare del tutto. Ecco perché il teatro non può essere il luogo di “cura” del mondo - anche se per qualche anno lo abbiamo creduto; ecco perché non può essere il suo rimedio “igienico” (e il disastro culturale in atto ce lo mostra in maniera evidente), ma piuttosto il luogo in cui si prende in cura - in responsabilità - proprio questa insanabilità del mondo, facendone comunque un discorso ogni volta pubblico.
Non consolazione, ma interrogazione, preparazione costante di mondi futuri - che forse non saranno mai. Che forse non riusciremo a vedere. In questo “servizio pubblico”, oggi davvero necessario, si comprende forse anche il senso di quell’aforisma di Kafka:
«anche se la redenzione non giunge, voglio però esserne degno in ogni momento».
Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio (1997) è poeta, scrittore, regista e redattore di «Nazione Indiana». Ha pubblicato La consegna delle braci (Luca Sossella editore, 2021, Premio Fondazione Primoli) e, con Edizioni Tlon, La specie storta (2023, Premio Montano, Premio Gozzano) e Fossili di Rivolta (2025). Ha codiretto la Trilogia dei viandanti (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su diverse riviste tra cui «Il Tascabile», «L’Indiscreto», «Doppiozero» e «Antinomie». Cura il progetto Edizioni Volatili ed è uno dei direttori artistici della festa I fumi della fornace.
Che la "nostra gente" sia in difficoltà davanti al linguaggio del teatro è fuor di dubbio. Sono in difficoltà a leggere e comprendere i manuali scolastici insieme ai figli, figuriamoci. Diventare autoreferenziali è il peggior suicidio in ogni ambito culturale (e politico). Il teatro potrebbe ispirarsi a un passato realmente esistito: denunciare l'oppressione con "illustrazioni analogiche" come fecero Manzoni, Hayez, Verdi, D'Azeglio ecc. Il problema è che oggi "la nostra gente" non vede gli oppressori.
esprimo solidarietà dalla povera landa pitagorica ……… grazie …..