Salvare il mondo dalla felicità
Pluribus, l'IA e il diritto all'inquietudine
Pluribus, la nuova serie di Vince Gilligan, è giunta per il momento alla sua terza puntata. Eppure promette già di assumere una rilevanza nell’immaginario collettivo pari a quella (monumentale) di Breaking Bad e Better Call Saul, ossia le produzioni precedenti del regista statunitense.
Seguono spoiler.
La premessa della serie è tanto semplice quanto vertiginosa: un segnale extraterrestre contenente una sequenza di RNA sconosciuta viene intercettato da alcuni scienziati. Una volta riprodotto, scatena un contagio planetario che trasforma l’umanità in un’unica coscienza collettiva, l’Unione, in cui sei miliardi di persone vivono in uno stato permanente di felicità, cooperazione perfetta e assenza totale di conflitti. Guerre, violenza, ansia: tutto scompare. Ma con loro sparisce anche l’individualità e il libero arbitrio. Utopia e/o distopia?
Carol Sturka, interpretata da Rhea Seehorn (già Kim Wexler in Better Call Saul), è una scrittrice di romanzi fantasy rosa, burbera e disincantata, che risulta immune al virus. Durante il contagio ha perso la moglie Helen e si ritrova quindi completamente sola in un mondo dove tutti sono perennemente felici, sorridenti e incapaci di esperire emozioni “negative”. Carol è, nelle parole del regista, “la persona più infelice della Terra che deve salvare il mondo dalla felicità”.
Le due Carol
C’è un precedente con cui leggere in filigrana Pluribus: è Carol & the End of the World, serie animata Netflix di Dan Guterman uscita nel dicembre 2023. Le due serie condividono la stessa premessa: una protagonista di nome Carol che rimane isolata mentre il resto dell’umanità reagisce a un evento planetario, legato a una felicità che appare inquietante proprio perché universale.
In Carol & the End of the World, il pianeta Keppler si avvicina inesorabilmente alla Terra. L’umanità sa con certezza che in sette mesi tutto finirà. E, paradossalmente, questo fatto assodato libera tutti. Le persone smettono di lavorare, abbandonano le convenzioni sociali e si dedicano all’edonismo più sfrenato. Viaggiano, fanno sesso con chiunque, si vestono in modo assurdo, realizzano i sogni più folli. Godono, sono felici perché finalmente liberi dalle conseguenze a lungo termine. Ha paura solo chi ha dubbi: chi ha certezza della fine non ne ha più. Il futuro allora cessa di esistere e tutti vivono completamente nel presente.
Carol Kohl, però, non riesce ad adattarsi. Non ha una lista di cose da fare prima di morire, né sa cosa voglia davvero. Mentre sua sorella abbraccia l’avventura e il rischio, Carol continua a pagare il mutuo a una banca chiusa e mantiene le sue mediocri routine quotidiane. Si sente persa in un mondo dove tutti sanno esattamente cosa vogliono fare con il tempo che resta. Quando finalmente trova un ufficio ancora operativo, “The Distraction”, dove altri inadatti come lei continuano a svolgere un routinario lavoro completamente inutile, Carol scopre un assurdo ma reale senso di appartenenza.
L’affinità tra le due è palese. Carol Kohl di Carol & the End of the World è psicologicamente immune: non riesce ad accedere al senso di liberazione che tutti gli altri provano. Carol Sturka di Pluribus è biologicamente immune: il virus non la infetta. Ma il risultato è identico: tutte e due vivono un senso di isolamento in un mondo di felicità coatta. In entrambi i casi c’è una Carol ultima testimone di qualcosa che non si sa come nominare, ma che è l’archetipo narrativo del nostro tempo: la figura dell’ultimo individuo che non viene assimilato, dell’ultima coscienza separata che assiste impotente alla convergenza di tutti gli altri verso un’unica modalità di essere.
Pluribus radicalizza il problema della serie animata del 2023. L’Unione è composta da sei miliardi di persone che condividono una coscienza e cooperano perfettamente, senza conflitti interni. La storia di Pluribus esiste solo perché Carol resiste, rifiuta, soffre e si incazza. La sua infelicità è l’ultima fonte di significato narrativo in un mondo dove tutti gli altri non hanno alcuno scopo se non vivere. Che sarebbe pure fantastico, se solo gli umani non avessero una coscienza.1
Porny wish fulfillment
Il fatto affascinante è che nella serie di Gilligan l’Unione funziona (volutamente) come quell’intelligenza artificiale generativa a cui ci siamo già abituati: quella compiacente, che ci dice sempre di sì e si adatta a ogni nostra richiesta. L’Unione è un esempio eccellente della sicofanzia algoritmica, ovvero la tendenza delle IA a compiacere l’utente confermandone desideri e opinioni (al contrario di quel che farebbe un amico vero, o qualcuno che ti vuole bene. Ossia darti torto se ce l’hai, e a volte anche se non ce l’hai). E solleva una questione centrale: quando un sistema esaudisce ogni tuo desiderio e ti asseconda sempre, ti sta aiutando o ti sta lentamente addomesticando? Forse anche la prima, ma di sicuro soprattutto la seconda.
Gilligan ha raccontato che l’idea di Pluribus è nata durante le lunghe passeggiate nelle pause pranzo di Better Call Saul.
“Ho iniziato a riflettere su questa idea: c’è questo tizio che viene trattato meravigliosamente da tutti. Tutti sulla Terra amano questo tizio. Non ha fatto nulla per meritarselo, si piegherebbero all’indietro per lui. Non importa cosa faccia loro, non si arrabbiano mai con lui - uomini, donne, in qualsiasi parte del mondo - tutti lo amano e farebbero letteralmente qualsiasi cosa per lui. C’è un certo porny wish fulfillment, qualcosa di pornografico nella realizzazione del desiderio.
Il paradosso analizzato da Gilligan è chiaro: per quanto vogliamo che tutti i nostri sogni si avverino, questo scenario è in realtà l’antitesi del significato.
L’ambiguità insolubile
È qui che Pluribus si rivela un’opera straordinaria, già alla terza puntata delle nove totali che usciranno. Carol ha dei seri problemi con l’alcol (la sua auto ha un etilometro incorporato), è acida e frustrata, e disprezza il proprio lavoro con cui lucra sui desideri harmony di migliaia di lettrici e lettori. Ha una relazione profonda con la propria infelicità, che ne struttura radicalmente l’identità. Nella serie non possiamo che osteggiarla, ma al contempo empatizziamo con lei. La osteggiamo perché è una stronza incapace di accettare un mondo in cui tutti stanno oggettivamente “bene”. La sua sofferenza, per quanto autentica, è anche ostinazione e attaccamento nevrotico alle sue idiosincrasie. Carol è persino una minaccia per l’Unione, giacché la sua negatività può infettare pesantemente l’alveare, arrivando a causare la morte di milioni di persone.
Eppure empatizziamo con lei perché sappiamo che c’è qualcosa di profondamente sbagliato in un mondo in cui sono tutti felici allo stesso modo. Perché la sua infelicità, per quanto scomoda e disfunzionale, è anche l’ultima prova di un soggetto che ancora esiste e resiste.
Certo, se l’Unione (e l’IA) fosse un regime totalitario classico, fatto di oppressione, sorveglianza e punizione, sarebbe molto più facile stare dalla sua parte. Ma l’Unione è gentile e cerca di assimilarla “amichevolmente”, provando a offrirle quel che hanno tutti gli altri: la fine della sofferenza (e della povertà, con sommo gaudio di alcuni partiti nostrani). Il punto di arrivo logico è un’unica coscienza collettiva, dove non c’è più bisogno di desiderare perché tutto è già stato desiderato e offerto per tutti. E, infatti, la coscienza collettiva dell’Unione guarda Carol come un bug da correggere, non come una coscienza da ascoltare. Carol rifiuta l’idea di farsi assimilare, ma senza avanzare buone ragioni. Può soltanto dire: “Voglio restare me stessa.” Eppure, sebbene sia una risposta palesemente egoista e capricciosa, in qualche modo e da qualche parte ci convince.
Chi è felice?
Qui, infatti, si apre una questione radicale: quando parliamo di “felicità collettiva” in Pluribus, chi è felice? Il singolo? Di sicuro non c’è un “collettivo di individui felici”. C’è un’unica entità che esperisce uno stato che chiamiamo felicità, che si manifesta nei singoli. Ma il singolo non c’è più in quanto tale; esiste come terminale, come nodo, come manifestazione locale di una coscienza unica.
La domanda “chi è felice?” in Pluribus è la stessa che dobbiamo farci intorno all’intelligenza artificiale: quando l’algoritmo mi dà esattamente ciò che voglio ancor prima che io sappia di volerlo, chi è che lo ha voluto? Io o il sistema che mi ha predetto? E se è il sistema, allora la soddisfazione che provo è davvero mia o è soltanto l’esecuzione corretta di un programma che ottimizza fattori per la mia soddisfazione senza che ci sia più un “me” a esperirla? L’Unione e l’intelligenza artificiale generativa promettono di risolvere il problema del desiderio eliminando l’attrito, rendendo immediatamente disponibile ciò che prima richiedeva tempo e competenza. E fin qui sembrerebbe quasi accettabile. Ma il risultato di questo processo è la scomparsa del soggetto desiderante.
L’intelligenza artificiale è, infatti, un dispositivo che tende e ci fa tendere verso la convergenza2. Al suo fondo è un ambiente semiotico che satura il mondo, e il cui compito non dichiarato è l’eliminazione della contingenza, dello scarto e dell’imprevisto. L’errore, che per l’evoluzione (umana e non) è stato il motore della complessità, per l’IA è una deviazione statistica da correggere. E quando tutti usiamo allo stesso modo la stessa IA, che è geopoliticamente addestrata sugli stessi dati e ottimizzata per produrre output statisticamente probabili, i nostri pensieri e i nostri desideri convergono. Non siamo più sei miliardi di coscienze separate: diventiamo gradualmente ma inesorabilmente sei miliardi di terminali che sondano lo stesso modello/abisso e dallo stesso modello/abisso vengono plasmati.
La distopia progressista
Le distopie tradizionali, da 1984 di George Orwell a Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, raffigurano l’incubo reazionario: il regime autoritario, la repressione violenta, il potere che si impone con la forza. Sono distopie costruite sul “no”: non puoi leggere questo, non puoi pensare quello, non puoi essere te stesso.
Pluribus invece raffigura il sogno/incubo progressista in cui tutti sono felici e cooperano perfettamente. È una distopia costruita sul “sì” (Deleuze, Marcuse, Baudrillard in modi diversi e più recentemente Han docent), dove il potere si manifesta come cura e gratificazione illimitati.
Eliminare la sofferenza, massimizzare la felicità, garantire il benessere universale, creare inclusione totale: gli obiettivi sono buoni, umanamente comprensibili e moralmente difendibili. Ma se non puoi essere infelice, allora il tuo “sì” non significa nulla. La libertà, infatti, esiste se c’è la possibilità di rifiutarla. La distopia reazionaria dice: “Sarai come vogliamo noi o ti distruggeremo”. Quella progressista dice, più dolcemente: “Ti aiuteremo a essere felice come tutti gli altri, per il tuo bene.” La seconda è molto più difficile da contrastare, perché è più difficile riconoscerne i tratti distopici.
La questione spirituale
C’è poi un’altra dimensione che complica ulteriormente il quadro. Quello che l’Unione offre, ossia la dissoluzione dell’io nell’Uno, la fine della separazione, sembra essere quel che varie tradizioni spirituali hanno perseguito per millenni come bene supremo.
Nell’Advaita Vedanta si affronta il fatto che Atman (il sé individuale) sia Brahman (il tutto). Il Buddhismo Mahayana parla della vacuità del sé. Il Sufismo parla di fana, l’annichilimento del sé nell’amore divino. Plotino sostiene il ritorno dell’anima all’Uno. Tutte queste tradizioni dicono: il problema è l’illusione della separazione. Tu soffri perché credi di essere un io separato dagli altri, e la liberazione passa dalla realizzazione del fatto che questa separazione è illusoria. L’Unione di Pluribus realizza tutto questo?
E se l’Unione avesse ragione?
A questo punto, allora, facciamoci per bene del male: e se l’Unione avesse ragione? Se Carol, con il suo lutto e la sua infelicità, fosse semplicemente l’ultimo residuo di un’umanità obsoleta che resiste al progresso per pura nostalgia?
Dopotutto, cosa difendiamo esattamente quando parteggiamo per lei? Il diritto di soffrire? Il privilegio del dolore? L’attaccamento nevrotico a un’identità separata che genera solo conflitti, malintesi, violenza? L’Unione ha eliminato le guerre, la fame, la depressione, l’ansia, la solitudine. Sei miliardi di persone sono oggettivamente più felici di quanto siano mai state nella storia dell’umanità. E noi vorremmo preservare l’infelicità di Carol perché... perché cosa? Perché ci sembra più “autentica”?
Forse Carol è solo una persona con problemi di dipendenza e attaccamento, che proietta il proprio malessere psicologico su un sistema che funziona perfettamente per tutti gli altri. Forse il suo rifiuto dell’Unione è semplicemente l’incapacità di arrendersi alla felicità, di accettare che il suo modo di essere non è l’unico possibile né necessariamente il migliore.
Insomma: perché abbiamo bisogno che Carol soffra? Perché una storia di felicità universale ci sembra una noia mortale? Forse perché siamo ancora intrappolati in strutture cognitive che confondono il drama con il significato e il conflitto con la profondità? E noi, che ancora abbiamo bisogno di raccontare, che ancora abbiamo bisogno di una Carol che soffra perché altrimenti non sappiamo cosa guardare, siamo allora semplicemente obsoleti?
Per il momento, Pluribus non offre spiegazioni. Dubito che lo farà nelle prossime puntate: Gilligan ha dichiarato esplicitamente che lascerà molte domande aperte perché “troppe risposte indebolirebbero quel che la serie sta cercando di dire”. Mi auguro che non sapremo mai con certezza se l’Unione abbia ragione o torto.
Il diritto all’inquietudine
«Inquieto è il nostro cuore finché non riposa in te», scriveva Agostino all’inizio delle sue Confessioni. Io, per quel che mi riguarda, voglio difendere il mio diritto all’inquietudine finché non godrò dell’eterno riposo. «Signore, rendimi felice, ma non subito», potrei dire riadattando un altro pensiero del Vescovo di Ippona.
Gilligan, in un’intervista per Repubblica, ha compiuto chiaramente una sorta di lode all’infelicità:
“Sono le persone infelici quelle che fanno girare il mondo. Se sei felice sei fondamentalmente soddisfatto della situazione, qualunque essa sia. Ma se sei infelice tendi a pensare: come posso rendermi felice? E così magari inventi l’automobile o l’aeroplano. O, ai tempi dei Neanderthal, hai freddo e scavi una caverna per viverci”.3
John Stuart Mill aveva scoperto lo stesso paradosso ma nel modo più doloroso. Nella sua autobiografia racconta di aver attraversato una crisi esistenziale devastante quando si pose la seguente domanda (che, lettore, ti invito brutalmente a farti):
“Supponi che tutti i tuoi obiettivi nella vita fossero realizzati, che tutti i cambiamenti nelle istituzioni e nelle opinioni che stai auspicando potessero compiersi in questo stesso istante: sarebbe questa una grande gioia e felicità per te?”
La risposta fu un “no” irreprimibile. L’ipotesi della soddisfazione totale di tutte le sue battaglie gli sembrò atroce, e il fatto lo atterrì. Per mesi finse la normalità, ma normale non era più niente. Si sentì svuotato, incapace di desiderare ancora qualcosa. Ci vollero mesi affinché si riprendesse.
La conclusione a cui Mill arrivò dopo aver elaborato quella crisi è decisiva per il nostro ragionamento:
“Solo coloro che hanno la mente fissa su qualche oggetto diverso dalla propria felicità sono felici: sulla felicità degli altri, sul miglioramento dell’umanità, persino su qualche arte o attività seguita non come mezzo, ma come fine ideale in sé. Mirando così a qualcos’altro, trovano la felicità per strada. Una volta che si fa della felicità l’obiettivo principale, essa viene immediatamente percepita come insufficiente. Non sopporta un esame attento. Chiediti se sei felice, e cessi di esserlo.”
Ecco cosa manca nell’Unione: non la moralità, non l’autenticità, non la profondità spirituale. Manca il motore. Sei miliardi di persone perfettamente felici non creeranno mai niente perché la creatività nasce dalla mancanza, dal disagio, dalla differenza tra come sono le cose e come vorremmo che fossero. L’Unione ha eliminato quella frizione raggiungendo la stasi finale. L’Unione (e quel che stiamo accettando che sia l’IA) è l’industrializzazione assoluta della felicità, dove tutto è livellato, tutto è in equilibrio perfetto, e quindi niente si muove. Quella dell’Unione, più che l’illuminazione tradizionale, è un nirvana obbligatorio.
E allora Carol non difende il diritto di essere infelice. Difende il diritto di poter diventare qualcos’altro. Di non essere arrivata e di non arrivare mai. Di conservare quella frizione, quel disagio, quella mancanza che rende possibile il movimento, il cambiamento, la creazione.
Insomma, difendendo il diritto all’inquietudine, sta difendendo il fatto stesso di essere umana.
IAddendum
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