C'è uno spettro che si aggira per l’Europa: è l’Europa stessa, con il suo terrore dell'irrilevanza
Sulla nostalgia malcelata degli intellettuali per l'esperienza estatica del conflitto
C'è uno spettro che si aggira per l’Europa: è l’Europa stessa, con il suo terrore dell’irrilevanza.
Si agita nell'inconscio collettivo europeo una nostalgia malcelata per quella che Jünger chiamava esperienza estatica del conflitto, per la guerra come esperienza trasformativa che, sola, innalza l'individuo al di sopra della sterile quotidianità borghese e lo pone al cospetto delle questioni fondamentali dell'esistenza.
Quando gli Scurati lamentano “la mancanza di guerrieri” e invocano “lo spirito combattivo”, raccontano una cultura che ha una paura radicale della propria insignificanza. Quando i Galimberti affermano che “la pace intorpidisce” mentre “la deterrenza” ci salverà, stanno dando voce a un’inquietudine profonda: quella di una civiltà che è terrorizzata all’idea di aver perso la propria passione. Questi e altri intellettuali non stanno semplicemente facendo analisi politiche; stanno rivelando una ferita narcisistica collettiva, che si incarna con maggior facilità in uomini di mezza età dal passato più o meno glorioso e dal futuro senz’altro ridotto.
L’Europa, che si sentì centro del mondo per secoli, oggi non è più l’epicentro della produzione economica mondiale, non è più l'avanguardia tecnologica, non è più l'autoritratto dell'umanità. Non è mai stata fino in fondo nulla di tutto questo, intendiamoci, ma aveva quantomeno delle buoni ragioni per raccontarsi delle storie. Oggi l’Europa guarda a quel che chiama Oriente e vede il futuro che si costruisce senza chiedere permesso. Guarda al mitico Occidente e scopre di non farne più parte, con gli USA che si chiudono in sogni (o incubi, a seconda dei punti di vista) isolazionisti. E così come un vecchio imperatore che sente sfuggire il potere assieme alla lucidità, si aggrappa all'ultimo gesto rimasto: la forza.
Questa è la verità occulta che spinge intellettuali di valore a pronunciare parole che dovrebbero far rabbrividire. Non è la ragione a guidare queste dichiarazioni, ma una passione segreta per l’estrazione dell’ultima goccia di significato dal conflitto, un bisogno di senso che si nutre della contrapposizione con l’altro - bisogno che, pur elaborato culturalmente, affonda le radici nelle strutture fondamentali dell'esperienza umana, nel modo stesso in cui l’identità si costituisce attraverso la differenza. E oggi la guerra promette di strappare la civiltà europea dalla sua condizione di torpore, e di restituirle quel che più le manca: un protagonismo storico, una missione, un'identità. A partire da un nemico comune che, dopo aver fatto l’Europa, faccia finalmente gli Europei.
La paura che agita il nostro inconscio collettivo è l’essere usciti dalla storia, condannati a un eterno presente senza sfide, senza antagonismi e quindi senza grandezza. La guerra è l'ultimo rifugio contro l'insignificanza, quella “festa negativa” che per Caillois sospende le regole ordinarie della civiltà e libera le energie represse. In un'Europa annoiata da se stessa, dove ogni giorno è la replica più stanca del precedente, la seduzione del conflitto sta nella promessa di un'interruzione della fine, o quantomeno di una sua posticipazione.
Ma la sfida per il pensiero europeo non è rianimare fantasmi guerrieri per compensare l'ansia della propria irrilevanza. È, piuttosto, reinventare forme di intensità esistenziale che non passino attraverso la distruzione, che riconoscano le ragioni del terribile amore per la guerra cantato da Hillman e sappiano quindi elaborare un modello di convivenza globale che non necessiti di una minaccia per generare significato. È costruire un’identità fondata sulla creazione anziché sulla paura, e sull’abitare serenamente il margine anziché ansiosamente il centro. È convivere serenamente con la vecchiaia e con la morte. È superare la tentazione di trascinare tutto e tutti nel proprio declino. Se l’Europa non riuscirà in questa impresa di immaginazione politica, resterà prigioniera della nostalgia. Questa via non porterà affatto alla grandezza sognata, ma solo a una nuova, devastante messa in scena di quell'antica violenza fondatrice che è il mito stesso di Europa, stavolta sotto forma di farsa.
Grazie Andrea. Pensavo di avere le idee abbastanza chiare sulla questione, ma il tuo post mi ha costretto a ripensarci, e ora ho molti più dubbi. Come sarebbe bello poterne discutere a voce !
Mi piace questo approccio "a latere". Mi piacerebbe tuttavia che fosse definito cosa si intende per "insignificanza" o "irrilevanza".Molti intellettuali europei sottovalutano il loro continente. Se vogliamo metterla sul "filosofico", sottovalutano il portato della cultura loro propria, che discende direttamente dai Greci antichi, e che consiste nella capacità di guardarsi allo specchio, auto-criticarsi e correggersi. Ma si vedano anche i dati bruti su quanto e come il nostro continente sia "forte" dal punto di vista puramente economico.
Uscendo dalle astrazioni, da materialista quale sono, nella mia modestissima opinione, quello che scaturisce dalle penne dei convertiti alla guerra non è altro che il riflesso della paura di perdere il privilegio dei ricchi. Si muove l'Europa al riarmo per insistere nel difendere un sistema neo-liberale che ha bisogno che l'industria torni a produrre, il PIL a salire, le borse a volare. E infatti, contemporaneamente, si continuano a respingere coloro che vorrebbero partecipare al banchetto. Insomma, quelle penne sono al servizio di narrative che nascondono un semplice problema: la produzione industriale in affanno.