C’è qualcosa di molto disturbante nel modo in cui il cervello si rifiuta di processare l’informazione “Sono in vacanza”. La leggiamo nell’out-of-office, ce l’hanno detto di persona, l’abbiamo persino segnato sul calendario condiviso. Eppure eccoci, dopo qualche giorno, a digitare l’innocuo messaggino su Whatsapp (o a telefonare): “Scusa il disturbo ma giusto una cosa velocissima...”. Non è solo maleducazione: è un vero e proprio cortocircuito mentale che impedisce di registrare l’assenza dell’altro come fatto reale. È una cecità cognitiva che ha a che fare con il modo in cui la tecnologia ha alterato la nostra percezione della presenza e dell’assenza.
Il cortocircuito cognitivo
Prima dell’era digitale, quando qualcuno partiva per le vacanze l’assenza era un fatto fisico incontrovertibile. Oggi invece sappiamo che, anche al mare, il destinatario delle nostre missive ha lo smartphone in tasca e potrebbe rispondere se solo volesse (e quasi sicuramente controlla le mail, pur non rispondendo). La sua irreperibilità non è più un’impossibilità fisica ma una scelta attiva. Se tace è come se dicesse: “Potrei risponderti ma ho scelto di non farlo”. E, non di rado, capita sempre più spesso che diventi impensabile l’idea stessa che l’altro possa essere in viaggio, o a casa a far nulla, e che quindi qualcuno si possa fermare, sempre se può permetterselo. Che possa, insomma, non rispondere alla mail inviatagli il 18 agosto.
Facciamo fatica a immaginare che mentre noi siamo immersi nel problema del momento l’altro possa essere completamente altrove e voglia restarci, e proiettiamo quindi la nostra incapacità: «se io controllo le email dalla spiaggia, lo farà senz’altro anche lui. E a questo punto, già che c’è, può rispondermi!» È un cortocircuito che si autoalimenta: non rispettiamo l’assenza altrui perché non abbiamo a cuore la nostra, e non abbiamo a cuore la nostra assenza perché non rispettiamo quella altrui. “So che sei in vacanza, ma...” è diventata la formula magica che pensiamo ci assolva, come se riconoscere verbalmente il disturbo lo rendesse meno disturbante. È il “mi dispiace” detto mentre si continua a fare esattamente quello per cui ci si sta scusando.
Com’è cambiata l’idea di vacanza
La vacanza non è più percepita come un diritto inviolabile e un tempo protetto, quindi, ma come una sorta di spazio di ricarica delle batterie lavorative che ha un’apertura sempre presente verso il lavoro. E il fine della vacanza non è riposarsi in sé, ma tornare al più presto operativi per il lavoro.
Jonathan Crary, nel suo 24/7: Il capitalismo all’assalto del sonno sostiene che il capitalismo contemporaneo mira a colonizzare ogni momento della vita umana, rendendo impensabile l’idea stessa di tempo non produttivo. La vacanza diventa così un’inefficienza da minimizzare. «Si potesse spremerli a oltranza lo farei, signora mia! Ma ogni tanto devono rifiatare per forza, sennò poi non mi lavorano bene (ma tanto ora arrivano i robot, bisogna solo pazientare)».
Non a caso molte aziende tech della Silicon Valley hanno introdotto le “unlimited holidays”, le vacanze infinite - una mossa che, dietro l’apparente generosità, nasconde il genio malefico: quando puoi prendere ferie illimitate paradossalmente non le prendi mai, perché ogni giorno di assenza diventa una scelta personale di cui ti senti responsabile. Netflix aveva introdotto le ferie illimitate con l’intento di promuovere il benessere, ma i dipendenti evitavano di prendersi tempo libero. Questo perché, in assenza di norme obbligatorie e con una pressione implicita a restare “sempre attivi”, si crea un ambiente psicologico che scoraggia il riposo.
A colpire è come questo rappresenti un fallimento dell’immaginazione collettiva: non riusciamo più a concepire che qualcuno possa essere davvero irraggiungibile, davvero altrove. È - lo ripetiamo - come se avessimo perso la capacità di pensare l’assenza come qualcosa di legittimo e necessario.
Iper-reperibilità improduttiva
Tra l’altro, questa reperibilità continua non migliora affatto la produttività. Cal Newport in Deep Work ha mostrato come l’interruzione costante e la disponibilità permanente distruggano la capacità di concentrazione profonda. Siamo sempre connessi ma mai pienamente presenti. Anche il (mai troppo lodato) David Graeber nel suo Bullshit Jobs aveva intuito che gran parte del lavoro contemporaneo è fondamentalmente inutile, e proprio questa consapevolezza inconscia ci spinge all’iperattività: se quello che facciamo non ha davvero importanza, dobbiamo farlo sempre, ovunque, ossessivamente, per riuscire a dargli una parvenza di necessità. È una forma di alienazione dal proprio tempo, un’incapacità di possedere davvero le proprie ore, i propri giorni.
Il fatto è che viviamo come se avessimo preso in leasing la nostra vita. Come quelle automobili che guidi per anni ma che non sono mai davvero tue, con il terrore costante di ogni graffio perché alla fine dovrai restituirle intatte. Solo che qui l’auto sei tu, e il contratto non prevede riscatto finale. Vivi con la cautela di chi maneggia merce altrui, sempre sul punto di dover restituire la tua attenzione al legittimo proprietario - che poi non sai nemmeno chi sia. Il tuo capo? L’azienda? O quella entità amorfa e onnivora che chiamiamo “il lavoro”?
Dovremmo smetterla di vedere la vacanza come un lusso colpevole e tornare a considerarla per quello che è: un tempo di rigenerazione non solo personale ma sociale. Perché una società che non sa più fermarsi, che ha perso il senso del ritmo tra lavoro e riposo, è una società che marcia verso l’esaurimento collettivo. E a quel punto ci sarà riposo per tutti: ma non sarà vacanza, sarà collasso.
E allora, finché siamo in tempo, rispondiamo novelli Bartleby/Raniero:
«Sì, mi disturba eccome».
Grazie, leggervi e riflettere sulle vostre parole fa parte delle mie vacanze.