Venuto a sapere della scomparsa di Papa Francesco ho pensato subito ai Fratelli Karamazov. Sono andato allora a recuperare le pagine straordinarie dedicate nel libro al Grande Inquisitore, che rappresenta nel capolavoro dostoevskiano una figura straordinaria, tragicamente consapevole, capace di impersonare il paradosso dell’autorità della Chiesa: la necessità di “correggere” l’opera di Cristo per amore dell’umanità, che è incapace di sostenere il fardello della libertà spirituale nella sua essenza più radicale.
In particolare, cercavo anzitutto questo passaggio straordinario rivolto al Cristo:
«L’uomo è stato creato più debole e più vile di quanto tu pensassi! Può forse eguagliarti in ciò che hai fatto? Stimandolo tanto, hai agito come se cessassi di averne compassione perché troppo hai preteso da lui, e chi ha fatto questo: Colui che l’amava più di se stesso! Se lo avessi stimato di meno, avresti preteso anche meno da lui, perché più lieve sarebbe stato il suo fardello».
Francesco ha attraversato il suo pontificato con una chiara consapevolezza della distanza tra l’ideale evangelico e la miseria della condizione umana, elaborando non solo prassi pastorali ma anche una teorizzazione di questa dolorissima tensione. La si può leggere ad esempio nell’Amoris Laetitia: un documento che, come il monologo dell’Inquisitore, riconosce l’impraticabilità dell’assolutezza in ambito morale e religioso, e si conclude con un invito più che umano:
«Non perdiamo la speranza a causa dei nostri limiti, ma neppure rinunciamo a cercare la pienezza di amore e di comunione che ci è stata promessa».
Sia l’Inquisitore che Francesco hanno teorizzato la necessità di mediare tra l’ideale e il reale, assumendo su se stessi il peso religioso, politico e morale di questa mediazione. Entrambi hanno riconosciuto che l’autorità religiosa comporta necessariamente una “traduzione” nel contemporaneo del messaggio originario, con tutte le trasformazioni, rotture e responsabilità che ogni traduzione implica. La differenza fondamentale sta nel modo in cui questa consapevolezza è stata presentata: l’Inquisitore ammette apertamente di aver tradito Cristo, mentre Francesco ha sempre sostenuto di essere fedele allo spirito autentico del Vangelo.
Dice l’Inquisitore:
«Abbiamo corretto la tua opera, fondandola sul miracolo, sul mistero e sull’autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere guidati di nuovo come un gregge e di vedere il loro cuore finalmente liberato da un dono tanto terribile che aveva arrecato loro tanti tormenti».
Qui c’è la grande differenza tra il personaggio di Dostoevskij e Francesco: entrambi hanno chiara la mediocrità dell’umano, ma mentre il primo ha scelto di assecondarla inventando un’architettura normativa del potere per amore, per lo stesso amore il secondo ha spinto per un ritorno allo spirito autentico del Vangelo, una fedeltà più profonda al messaggio di Cristo. Sembrerebbero agli antipodi.
Eppure, a uno sguardo più profondo, l’Inquisitore e Francesco si rivelano due esempi molto vicini di consapevolezza tragica della propria posizione.
La domanda cruciale intorno a cui si è svolto il pontificato di Francesco è la stessa, identica, dell’Inquisitore:
«E che colpa hanno tutti gli altri, i deboli, se non hanno saputo sopportare quello che i forti hanno sopportato? Di che cosa è colpevole un’anima debole se non ha la forza di accogliere doni così terribili? Possibile che tu sia venuto davvero solo agli eletti e per gli eletti?»
Quando Francesco ha parlato della Chiesa come ospedale da campo, quando ha enfatizzato la misericordia come attributo fondamentale di Dio, quando ha aperto spazi pastorali per i divorziati risposati o ha insistito sulla gradualità del cammino spirituale, stava essenzialmente rispondendo alla stessa domanda dell’Inquisitore. Francesco ha operato riconoscendo che il messaggio cristiano nella sua radicalità può essere accessibile solo a pochi, e ha cercato di trovare strade per renderlo sostenibile, almeno nel suo versante essoterico, per tutti, in maniera quindi identica ma ribaltata, come su uno specchio, rispetto a quella del Grande Inquisitore. Entrambi, pur con motivazioni opposte, hanno ritenuto necessario “adattare” la potenza del messaggio per amore dell’umanità. L’Inquisitore lo ha fatto esplicitamente, sostituendo la libertà con la sicurezza; Francesco lo ha fatto implicitamente, sostituendo l’intensità con la misericordia.
Come l’Inquisitore, anche Francesco ha “alleggerito” il fardello della libertà spirituale: la sua teologia della misericordia, elaborata ad esempio nella Misericordiae Vultus («La Chiesa sentiva la responsabilità di essere nel mondo il segno vivo dell’amore del Padre») e in numerosi altri interventi, si può leggere oggi come una giustificazione teorica dell’adattamento del messaggio evangelico alle fragilità umane – un’operazione vicinissima a quella dell’Inquisitore quando giustifica le “correzioni” apportate al messaggio di Cristo.
Ora che Francesco non è più qui, dobbiamo riconoscerne la tragica grandezza: quella di chi ha accettato fino in fondo le contraddizioni dell’autorità religiosa, assumendosene nel corpo le responsabilità. Ora possiamo finalmente apprezzarne la profondità filosofica e teologica - che ha subìto spesso, ingiustamente, il paragone con Benedetto - riconoscendo la sua capacità straziante di mediare tra l’ideale e il reale, tra il messaggio nella sua purezza e la misera condizione umana.
E l’eredità di Francesco, vista in questa prospettiva, appare ancora più complessa e significativa: non tanto quella di un pontefice riformatore venuto a rimettere in sesto il tempio nel mercato e il mercato nel tempio, ma quella di una figura che ha vissuto e teorizzato fino in fondo le tensioni fondamentali dell’esperienza religiosa, con tutte le sue contraddizioni e i suoi paradossi. Come il Grande Inquisitore, anche Francesco ha portato su di sé il peso di queste contraddizioni, assumendosene pienamente la responsabilità di fronte a sé, alla storia e al più certo degli esseri immaginari: Dio.
Grazie per la vostra capacità leggere il mondo in modo profondo. Avete una grandissima sensibilità.
Grazie Andrea per averci offerto nuovamente una riflessione profonda e lucidissima, approcciabile a tutti, anche a me che, per vicende personali, sono stata assente dalla realtà fuori dalla mia "bolla". Voi di Tlon siete la mia ancora di salvezza.