La Palestina come cartina tornasole dell'umanità
Riflessioni a margine dell'incontro con Francesca Albanese a Roma
La serata con Francesca Albanese a Roma è stata un grande rito collettivo. Un’emozione che ancora ci attraversa per il senso di rabbiosa comunione vissuto con migliaia di persone.
Il fatto è che la Palestina funziona oggi come una perfetta cartina tornasole, perché il modo in cui ci rapportiamo al genocidio in corso rivela tanto chi siamo quanto chi vogliamo essere.
La Palestina è lo specchio in cui l’Occidente è costretto a vedere riflesso il suo enorme lato oscuro. E, riconoscendosi così mostruoso, non potendo negare le basi coloniali, razziste e predatorie su cui si poggia, reagisce malissimo. Perché il nostro è un sistema che parla di diritti umani mentre fornisce ogni giorno il kit completo per il genocidio. Un sistema in cui gran parte dei media e dei politici trattano la questione con una sudditanza mostruosa verso il potere israeliano e statunitense, chiamando “equidistanza” l’imperdonabile parificazione tra vittima e aggressore (e, non di rado, l’inversione dei ruoli). Tutto, pur di custodire i propri meschini interessi.
Netanyahu e i suoi alleati non stanno solo perpetrando un genocidio, stanno saggiando metodicamente i limiti della nostra indifferenza. Ogni ospedale bombardato, ogni scuola distrutta, ogni linea rossa oltrepassata è anche un test: fin dove possiamo spingerci prima che l’Occidente faccia qualcosa di più che esprimere “preoccupazione”? È un esperimento in tempo reale sulla nostra capacità di abbozzare, di assuefarci all’orrore, di normalizzare l’inaccettabile. Ogni giorno che passa senza una reazione sostanziale è un segnale che possono continuare ancora un po’.
Quel che sfugge a molti è che ciò che viene testato su Gaza oggi potrà essere applicato su di noi domani. Le tecnologie di sorveglianza perfezionate nei territori occupati vengono già vendute alle nostre polizie. I software di riconoscimento facciale testati ai checkpoint palestinesi sono gli stessi che monitorano le nostre piazze. Le tecniche di controllo della popolazione sperimentate a Gaza - l’assedio, il razionamento, la punizione collettiva - diventano il manuale operativo per gestire le future crisi sociali nelle nostre metropoli.
Non è fantascienza distopica: è già successo. Quello che permettiamo che venga fatto ai palestinesi oggi stabilisce il precedente per quello che potrà essere fatto a noi domani, quando saremo noi gli “elementi di disturbo”.
Per questo la Palestina non è solo una questione di solidarietà internazionale. Ogni volta che accettiamo che i diritti umani siano sospendibili per ragioni di sicurezza, stiamo firmando la nostra futura condanna. Il laboratorio Gaza è un nostro problema, non solo per ragioni altruistiche ma anche per puro egoismo.
Ma quelle migliaia di persone che ho visto ieri sera, commosse, indignate e disperatamente gioiose, dimostrano che nonostante l’enorme campagna pubblicitaria messa in campo a reti unificate la gente ha chiaro cosa sta accadendo. E sa che la Palestina non è una questione lontana, ma lo specchio delle nostre oppressioni. Che il sistema che distrugge Gaza è lo stesso che precarizza il nostro lavoro, che mercifica la nostra salute, che devasta il nostro ambiente.
L’emozione vissuta era la rabbia di fronte all’orrore unita alla gioia di non essere soli, di scoprire che si è in tanti a voler costruire altro, con furore e rigore.
Attraverso il dolore e l’indignazione si sta aprendo uno squarcio di senso: nei volti dei partecipanti c’era quella scintilla che nasce quando capisci che puoi fare qualcosa. Che non sei inutile, impotente, svuotato di senso. Che si può costruire e tornare a pensare che la protesta serva, che il rifiuto di essere complici possa manifestarsi in atti concreti e efficaci, anzitutto di boicottaggio compiuti dai singoli e dagli stati.
Figure come Francesca Albanese, con la sua lotta e la sua umanissima integrità, mostrano che si possono sfidare i potenti, dire la verità anche quando cercano di zittirti con minacce, dossieraggi e sanzioni. E che non siamo condannati all'impotenza. Non siamo soli. Siamo migliaia, milioni. Anzi, "Siamo di più", come ha detto bene lei.
Viviamo in tempi in cui il disincanto è diventato una forma di fierezza intellettuale, dove mostrarsi scossi o indignati viene letto come ingenuità, dove la complessità viene invocata non per comprendere meglio ma per paralizzare l’azione.
Giorgio Agamben, riflettendo su cosa significhi essere contemporanei, scriveva che «Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente» e a percepire una luce che cerca di raggiungerci ma non può ancora farlo. Quella scintilla negli occhi delle migliaia di persone presenti era esattamente questo: la percezione che nell’oscurità del genocidio in corso si sta aprendo una fessura di luce, non la luce della salvezza imminente ma quella della possibilità di agire, di non essere condannati alla posizione di spettatori impotenti.
Questa contemporaneità dell’orrore pone una sfida inedita alla nostra capacità di risposta. Non possiamo limitarci alla commemorazione o alla testimonianza postuma; siamo chiamati a un’azione nel presente che interrompa il corso degli eventi. È qui che il boicottaggio assume la sua valenza più profonda: non è solo una tattica politica ma un modo per riaffermare la nostra capacità di dire no, di sottrarci alla complicità. Quando rifiutiamo di comprare prodotti di aziende complici, quando chiediamo alle nostre università di disinvestire, quando protestiamo contro gli accordi militari del nostro paese, stiamo trasformando la nostra indignazione in azione materiale, colpendo l’unica cosa che questo sistema comprende davvero: il profitto e la legittimazione sociale.
Viene in mente Antonio Gramsci quando, citando Romain Rolland, parlava di “pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà”. Il pessimismo ci impone di vedere con chiarezza l’enormità delle forze in campo: il complesso militare-industriale che trae profitto dalla guerra, i media mainstream che manipolano l’informazione, i governi che antepongono gli interessi geopolitici ai principi umanitari. Ma l’ottimismo della volontà ci ricorda che la storia non è mai scritta in anticipo, che anche i sistemi apparentemente più solidi possono crollare quando viene meno il consenso che li sostiene.
La Palestina, in questo senso, rappresenta oggi il punto di rottura che svela l’ipocrisia del sistema e catalizza una presa di coscienza generazionale, che ha la potenzialità di mettere in discussione l’intero paradigma su cui si fonda il nostro modello di sviluppo.
La strada è lunga e piena di ostacoli, questo è certo. Ma come diceva il poeta Antonio Machado, caminante, no hay camino, se hace camino al andar.
Viandante, non c’è cammino, il cammino si fa andando.
Noi desideriamo salvare la Palestina e forse alla fine sarà la Palestina a salvare noi 🇵🇸 grazie!