Il femminicidio di Martina Carbonaro indica, ancora una volta, il grande rimosso del nostro Paese
Per molto tempo, il femminicidio è stato descritto come un delitto che riguardava le coppie adulte, e che avveniva in molti casi perché l’uomo non accettava la fine della relazione e voleva impedire alla donna di uscirne e di esercitare la propria libertà. Il femminicidio aveva una geografia precisa: case coniugali, storie lunghe, l'uomo maturo che non accettava l'abbandono.
Secondo i dati diffusi il 21 febbraio 2024 dal comandante generale dell'Arma dei Carabinieri, Teo Luzi, nella commissione parlamentare sul femminicidio, l'età media delle vittime è di 50 anni e le ultra 65enni rappresentano da sole circa un terzo del totale (28%).
In molti editoriali in questi anni abbiamo letto, di conseguenza, che la violenza di genere ce la saremmo lasciata alle spalle col tempo, perché fisiologicamente sarebbe scomparsa. Abbiamo creduto che i giovani maschi fossero diversi, che non volessero più possedere le compagne e impedire loro di essere libere. È chiaro, ormai, che sta accadendo tutto il contrario.
Martina Carbonaro aveva 14 anni. È stata uccisa il 28 maggio 2025 dal suo ex fidanzato di 19 anni, Alessio Tucci, che ha confessato: “L'ho fatto perché mi aveva lasciato”. Aurora aveva solo 13 anni quando, nell'ottobre 2024, il suo ex fidanzato quindicenne l'ha spinta dal settimo piano di un palazzo a Piacenza. Mentre lei tentava disperatamente di aggrapparsi alla ringhiera per salvarsi, lui la colpiva ripetutamente alle mani per farla cadere.
Ilaria Sula, 22 anni, uccisa a marzo dal 23enne Mark Samson per “gelosia”. Sara Campanella, anch'essa 22enne, accoltellata in strada a Messina dal collega universitario Stefano Argentino, 27 anni, che non accettava i suoi rifiuti.
Oggi i volti dei maschi femminicidi si sono fatti improvvisamente giovani. Quindicenni, ventenni, poco più che adolescenti. Non possiamo non rintracciare un fenomeno che lega tutti questi delitti, e non considerare come la vita per le giovani donne non sia più sicura di quella delle proprie sorelle maggiori, delle proprie madri, delle proprie nonne.
Non cerchiamo spiegazioni semplici
La prima reazione è cercare spiegazioni semplici: i social, la pornografia, i modelli tossici di mascolinità. Ma c'è qualcosa di più sottile che ci sfugge, e su cui dovremmo interrogarci, anziché trattare questi assassini come singoli mostri.
Sara Campanella aveva scritto alle amiche: “Dove siete che sono con il malato che mi segue?” Aurora aveva confidato: “Questo è pazzo, mi viene sotto casa”. In molti casi - ultimo, quello di Martina Carbonaro - la rete sociale intorno dichiara di non aver saputo, di non aver capito la gravità, e che le vittime non avevano detto niente per non dare fastidio, per non far preoccupare.
In tutti questi casi avviene poi la solita vittimizzazione secondaria: perché la vittima non ne ha parlato, perché la vittima non ha capito? Eh, se l’avesse detto sarebbe ancora viva! Si tratta, per quanto mi riguarda, di una delle accuse più dolorose, che ignora come il femminicidio sia il culmine di una violenza molto più diffusa, e che quando il femminicidio avviene non è mai colpa della vittima che non ha fatto abbastanza o - come ha dichiarato il ministro Carlo Nordio qualche tempo fa - non hanno avuto la prontezza di “nascondersi in una chiesa o in una farmacia”.
Ignora che la mano che uccide è sempre quella dell’assassino, e che quella colpa singola è permessa da una rete sociale incapace di intervenire, e che ritiene normali certi comportamenti.
Qualche mese fa sono state diffuse sui social le registrazioni che Sara Campanella aveva mandato alle amiche delle discussioni che aveva con quello che sarebbe diventato il suo assassino. Evito sempre di ascoltare e guardare questi contenuti privati che vengono diffusi online, ma in questo caso ho ascoltato e sono rimasta paralizzata. Perché so benissimo che in situazioni simili si sono trovate tantissime donne, tantissime. Non è un caso isolato, non è un mostro, non doveva essere lei ad allontanarlo con più convinzione. Lei era stata chiara, pensava che lui avrebbe desistito. Come avrebbe mai potuto immaginare di essere in pericolo di vita, se una situazione del genere prima o poi capita a tante? Eppure, i commenti sui social a quegli audio erano raggelanti: accusavano lei di non aver fatto abbastanza.
Il grande rimosso
Anche nel caso di Martina Carbonaro, la macchina delle reazioni si mette in moto con una precisione quasi meccanica. Si parla di mostri, di casi isolati, si chiede più sicurezza, più controllo, pene più dure. Si organizzano manifestazioni, si scrivono editoriali sull’educazione al rispetto. Ma è sufficiente qualche giorno e tutto torna come prima.
Quello che non facciamo mai - quello che sembriamo costituzionalmente incapaci di fare - è guardare la radice del problema. Non ci chiediamo mai cosa significhi crescere maschio in questo Paese, cosa accada nei paesaggi emotivi di questi giovani, quale tipo di educazione maschile stiamo producendo o, più spesso, non producendo affatto.
È come se avessimo paura di ammettere che il problema non sono i singoli “mostri”, ma un sistema che continua a sfornare giovani maschi incapaci di elaborare il rifiuto, incapaci di distinguere tra amore e possesso, incapaci di immaginare forme di mascolinità che non passino attraverso il dominio.
Quando un quindicenne spinge una tredicenne dal settimo piano perché non vuole più stare con lui, dovremmo almeno avere l’onestà di domandarci: cosa è mancato nell’educazione pubblica perché potesse compiere un delitto come quello? Ma questa domanda è un tabù. Preferiamo concentrarci su tutto il resto: i social media, la pornografia, i videogiochi violenti, la musica trap. Tutto tranne che interrogarci su come cresciamo i maschi, su cosa trasmettiamo - o non trasmettiamo - dei sentimenti, delle relazioni, di cosa significhi essere uomini.
Il risultato è che abbiamo intere generazioni di giovani maschi che navigano a vista nel territorio delle emozioni, senza bussola, senza mappe, senza adulti capaci di accompagnarli. E quando questo territorio diventa troppo complesso da attraversare, quando incontrano il loro primo vero “no”, alcuni di loro implodono in modi che distruggono tutto. E stanno aumentando, e insieme al numero di femminicidi di giovanissimi aumentano - ma non li vediamo - i comportamenti violenti che non hanno un esito delittuoso, ma che impediscono alle ragazze e alle giovani donne di essere libere.
Per ogni femminicidio, esistono tantissime altre relazioni tossiche che rimangono invisibili, come bombe inesplose, ma che hanno delle conseguenze enormi sulle singole vite.
La paura di nominare il problema
Perché è così difficile parlare di educazione maschile in questo Paese? Perché ogni volta che si cerca di mettere al centro la questione dell’educazione emotiva dei maschi, la conversazione viene rapidamente spostata su altro?
Forse perché significherebbe ammettere che per generazioni abbiamo cresciuto i figli maschi nell’idea che essere uomini significhi non piangere, non mostrarsi vulnerabili, non accettare sconfitte. Che gli abbiamo insegnato a vedere nelle donne non delle persone intere, ma delle funzioni: madri, mogli, fidanzate, amanti. Ruoli al loro servizio.
Forse perché significherebbe mettere in discussione un intero immaginario di mascolinità che attraversa classi sociali, generazioni, orientamenti politici. Un immaginario che fa ancora fatica a concepire maschi sensibili, emotivamente alfabetizzati, capaci di stare nel dolore senza trasformarlo in rabbia distruttiva.
Il coraggio di guardare
Mentre continuiamo a trattare ogni femminicidio come un caso a sé, mentre continuiamo a concentrarci sui sintomi invece che sulle cause, altri Alessio Tucci stanno crescendo nelle nostre case, nelle nostre scuole, nelle nostre città.
Stanno crescendo in un deserto emotivo, circondati da adulti che loro stessi non sanno come orientarsi nel territorio dei sentimenti. E quando arriverà il momento - quando incontreranno il loro primo grande rifiuto, la loro prima vera perdita - alcuni di loro non sapranno come fare altro che distruggere.
Il femminicidio di Martina Carbonaro, come quello di Aurora, di Ilaria Sula, di Sara Campanella, ci sta dicendo qualcosa di molto chiaro: il problema non sono i singoli mostri, ma un sistema che continua a produrre maschi incapaci di amare senza possedere.
Fino a quando non avremo il coraggio di guardare questo problema in faccia, continueremo a contare le morti e a fingere che la prossima legge, la prossima campagna, il prossimo slogan possa cambiare qualcosa.
Ma cambiare non significa aggiungere regole e inasprire le pene (tanto sappiamo che non è un deterrente). Cambiare significa iniziare finalmente a crescere uomini diversi.
Ciao, penso che non bastino le iniziative lasciate alla buona volontà dei singoli, dovrebbe esserci una riforma strutturale, l'educazione "sentimentale/sessuo-affettiva" andrebbe inserita nel programma scolastico fin dalle elementari, magari coinvolgendo attivamente anche i genitori (so che qui sfioriamo l'utopia). Ho partecipato, e tenuto a mia volta gruppi di sostegno alla genitorialità, negli anni passati, grazie a minimi fondi stanziati da scuole "illuminate", che di anno in anno non si sapeva se sarebbero stati rinnovati. I genitori però erano sempre pochi, i più disponibili ad approfondire le tematiche e a mettersi in gioco, gli stessi genitori che andrebbero sicuramente nelle biblioteche che magari organizzano anche queste attività. Ci sono realtà di scuole dove venivano offerte iniziative anche in classe, sia con bimbi piccoli che con preadolescenti, giochi di ruolo e laboratori per promuovere l'educazione all'affettività. Iniziative che negli anni non sono state più mantenute per via della mancanza di fondi. Ma anche fossero continuate non sarebbe stato sufficiente. Serve un cambiamento strutturale, serve investire nel benessere dei giovani, emotivo, psicologico, affettivo, sessuale, ma seriamente. Ho sentito di un recente sondaggio, credo ne parlassero sul Post, che diceva che la maggior parte degli adolescenti sarebbe felice di parlare della loro vita affettivo/sessuale con persone che non facciano parte della famiglia. Quale miglior contesto di quello scolastico? Invece il prossimo anno studieremo la Bibbia e torneremo a imparare poesie a memoria.....
Buona sera Maura. Mi pare abbastanza evidente che questo governo non abbia alcuna intenzione di affrontare il problema. Tutte le proposte sono del tipo "venite già ammazzate". Dubito anche che governi di differente orientamento politico farebbero di più. In fondo le forze del centro-sinistra hanno governato in varie coalizioni negli anni precedenti, ma nulla di significativo è stato fatto. La domanda che mi pongo a questo punto è: siamo sicuri di dover aspettare che sia la politica a prendere iniziative su questo ? Per esempio, io vivo vicino a Milano e sono iscritto a 3 circuiti bibliotecari, tra cui quello della città di Milano: potrei sbagliare, ma in nessuno di questi ricordo iniziative volte a far comprendere meglio il problema (non dico a tenere corsi di educazione sentimentale). Possibile che non ci sia nessun tipo di organizzazione che abbia presenza sul territorio e che voglia prendersi questa responsabilità ?