di Jianwei Xun
Nessuno ha amato Silvio Berlusconi quanto i suoi più acerrimi avversari.
La sinistra italiana è stata ossessionata per più di vent’anni dal Cavaliere. Ogni sera andavano in onda programmi incentrati sulla sua figura, e ogni giorno venivano pubblicati editoriali che ne denunciavano le malefatte. I comici di sinistra lo dileggiavano, i giornalisti ne raccontavano ogni dettaglio della vita privata, e nel frattempo gli intellettuali impegnati scrivevano saggi su saggi analizzando criticamente ogni sua mossa: tutti contribuivano a mantenerlo al centro assoluto dell’attenzione collettiva. Il pubblico consumava questi contenuti in un voyeurismo moralizzato, dove il disgusto mascherava una gigantesca e innegabile fascinazione. Berlusconi era diventato una presenza così ingombrante nell’immaginario della sinistra italiana che i suoi membri non riuscivano più a pensare nient’altro (e ancora adesso, a due anni di distanza dalla morte, fanno ancora parecchia fatica). Ogni proposta politica veniva formulata in termini anti-berlusconiani, ogni identità progressista si definiva in opposizione al Cavaliere. Avevano bisogno vitale del Caimano, del suo eccesso, del suo scandalo.
Berlusconi rappresentava una libertà dalla costrizione del superego progressista che molti, pur non potendolo ammettere, trovavano (e trovano) molto attraente. La sua capacità di dire e fare qualsiasi cosa senza senso di colpa, la sua ostentazione della ricchezza e del potere, la sua vita costruita come una continua festa dove le regole morali comuni non si applicano. Tutto questo esercitava una grande fascinazione su chi aveva costruito la propria identità sulla repressione di quegli stessi impulsi.
From Silvio to Donald
Questa logica del desiderio liberato (vale a dire l’idea che il potere coincida con la sospensione delle regole) si è poi trapiantata, mutando forma, nella cultura statunitense. Se Berlusconi rappresentava l’euforia del piacere, Trump ne ha incarnato la versione cupa e muscolare: la stessa energia erotica rivoltata in aggressione, in dominio, in rivalsa. Berlusconi attraeva attraverso la promessa di liberazione dal superego catto-comunista italiano. Diceva implicitamente: guardatemi, io faccio tutto ciò che vi hanno insegnato essere peccato. Non solo non vengo punito ma godo. Trump invece mobilita energie diverse: la sua trasgressione è bellicosa. Attrae non chi vuole godere ma chi vuole vendicarsi, chi cerca l’affermazione violenta della propria identità minacciata.
Trump rappresenta una trasgressione più violenta, aggressiva e pericolosa rispetto a quella del suo predecessore spirituale. Anche lui dice ad alta voce cose che altri pensano ma non osano dire, ma in più viola tutte le norme di civiltà del discorso pubblico, insulta e minaccia di ribaltare il tavolo stesso della democrazia (e non è escluso che lo faccia). Modalità che esercita una fascinazione particolare sulla cultura statunitense, che ha sempre avuto un rapporto ambivalente con l’autorità e con la violenza.
La sinistra americana progressista, con il suo codice di correttezza politica, con le sue infinite regole su cosa si può e cosa non si può dire e con la sua vigilanza morale continua, negli anni ha contribuito alla creazione di un clima di repressione che molti hanno trovato soffocante. Trump ha saputo rappresentare perfettamente l’opposto assoluto: l’assenza completa di filtri e il rifiuto di ogni forma di autocensura. Ogni sua violazione delle norme viene consumata avidamente dal pubblico, ogni suo eccesso viene trasmesso e ritrasmesso. C’è un godimento segreto nell’indignazione perpetua: Trump fornisce un flusso continuo di contenuti che permettono alla sinistra mondiale di sentirsi virtuosa nella sua opposizione e allo stesso tempo di partecipare all’altrui trasgressione, restando così soddisfatta e impotente.
Berlusconi, quindi, è stato il prototipo, il laboratorio sperimentale di ciò che Trump avrebbe perfezionato (o più precisamente americanizzato) e portato su scala globale. L’Italia degli anni Novanta e dei primi Duemila è stata il terreno di coltura in cui sono germinate le attuali tecniche di manipolazione percettiva. Il Cavaliere ha inaugurato l’era della politica come intrattenimento totale, dove la distinzione tra fiction e realtà, tra performance e governo effettivo, tra personaggio mediatico e leader politico si dissolve completamente. Insomma, il passaggio è stato da farsa tragica a tragedia farsesca. Entrambi avevano capito che presentarsi come vittime del “sistema”, della “stampa cattiva”, delle “élite”, anche quando si è miliardari e si detiene il potere massimo, è incredibilmente efficace. Crea un paradosso logico che funziona perfettamente a livello ipnotico: l’uomo potentissimo che si presenta come perseguitato, il magnate che si erge a difensore del popolo contro le élite di cui fa parte.
L’archetipo del Gangster
Trump è l’incarnazione perfetta dell’archetipo del gangster italo-americano che il cinema hollywoodiano ha cristallizzato.
Il termine gangster nasce nel lessico urbano statunitense del primo Novecento durante il Proibizionismo, e da subito designa non solo chi compie reati, ma chi organizza la trasgressione come impresa. Trump si pone nel solco che va da Al Capone a Lucky Luciano, da Vito Corleone a Tony Soprano.
Il gangster è il prodotto della collisione tra una cultura mediterranea dell’onore, della famiglia, del godimento della vita e il puritanesimo protestante americano ossessionato dal successo, dalla rispettabilità, dall’accumulo. Il gangster italo-americano porta in sé questa tensione: da un lato mantiene i valori familiari, la lealtà, il piacere della tavola e della festa; dall’altro deve operare nella spietata logica capitalistica americana dove tutto è business e competizione.
La narrazione filmica del gangster italo-americano è sempre stata quella del self-made man che raggiunge il successo proprio perché rifiuta di giocare secondo le regole imposte dall’establishment. Non aspetta che il sistema gli conceda spazio: se lo prende con la forza, con la furbizia, con la violazione sistematica delle norme, che sono percepite come ingiuste a prescindere. Ingiuste proprio in quanto norme: qualsiasi regola, per il fatto stesso di essere regola, è vista come limitazione illegittima della volontà. È quella vena che corre da Thoreau attraverso gli outlaw del West fino ai tech-bros californiani: l’idea che la libertà vera sia assenza di vincoli, non partecipazione a un ordine condiviso.
Questo è il motivo per cui la narrazione vittimistica di Trump funziona così bene. Nel cinema gangster, da Il Padrino a Quei bravi ragazzi e Scarface, il protagonista è qualcuno che il sistema ha tradito, umiliato, schiacciato. Michael Corleone viene quasi ucciso e la sua famiglia attaccata. Tony Montana arriva come rifugiato cubano trattato come spazzatura. E Trump ha costruito la sua intera narrativa politica su questo schema: il sistema corrotto che cerca di distruggerlo, i giudici che lo perseguitano, i media che mentono su di lui, l’establishment che complotta contro di lui. E oggettivamente la sua è una storia da film: un miliardario del settore immobiliare che diventa star televisiva, poi contro ogni previsione conquista la presidenza, sopravvive a due impeachment, viene condannato penalmente e invece di essere distrutto politicamente torna ancora più forte, vince di nuovo, e nel mezzo sopravvive a un attentato fotografato in modo così perfetto da sembrare una scena orchestrata da Martin Scorsese.
L’attentato è il momento in cui la narrazione gangster raggiunge la sua apoteosi mitologica. Quella foto - Trump con il sangue sul viso, il pugno alzato, la bandiera americana sullo sfondo - è l’iconografia perfetta del gangster che sopravvive al tentativo di eliminazione. Quella scena supera qualunque script perché è letteralmente inscenabile.
Eppure è successa.
Il fatto è che Trump vive da anni in uno spazio dove la distinzione tra performance e realtà è collassata. La sua vita è sempre stata uno show, un reality, una narrativa costruita. Il suo immediato alzarsi dopo l’attentato, il pugno sollevato, il Fight! Fight! Fight! è stata pura performance istintiva del gangster che sa che questo è il momento in cui deve mostrare che lui è invincibile e non può essere abbattuto, in cui il personaggio diventa mito, con buona pace degli avversari. La filosofia del gangster americano è volontà di potenza pura, rifiuto della morale degli schiavi, affermazione violenta di sé contro ogni vincolo. Il gangster dice: “Le tue leggi non mi vincolano. La tua morale è ipocrisia. Io prendo ciò che voglio per il semplice fatto che sono forte abbastanza per farlo.” Con una pistola in una tasca e il Congresso nell’altra.
L’energia del mito
Trump vuole il potere assoluto e vuole essere riconosciuto come virtuoso. Vuole dominare e vuole essere amato. Vuole schiacciare i nemici e il premio Nobel per la Pace, così come Berlusconi voleva le escort e la benedizione del Papa. La sua è una storia che supera qualunque script ordinario perché ha raggiunto un livello di intensità narrativa che normalmente appartiene solo alla finzione, e che rivela quanto la democrazia liberale, con le sue norme, le sue procedure e il suo linguaggio civilizzato è sempre stata sostenuta da una repressione massiccia di quelle energie mitiche a cui Trump ha tolto il coperchio. La narrazione del gangster vincente è più potente, più mobilitante, più elettrizzante di qualsiasi discorso sulla governance responsabile o sul compromesso democratico.
La democrazia liberale ha sempre funzionato attraverso una massiccia (e necessaria) operazione di repressione delle energie mitiche, irrazionali, dionisiache, che però costituiscono una componente fondamentale dell’esperienza umana. Ha costruito un ordine basato sulla deliberazione razionale, sul compromesso (più o meno) civile, sul controllo degli impulsi, sulla mediazione istituzionale di ogni conflitto. Ha richiesto ai cittadini di rinunciare alla violenza diretta in cambio della sicurezza, e di contenere gli istinti di dominio in cambio della convivenza pacifica. Ha costretto ad accettare la noia delle procedure e della burocrazia in cambio della salvifica prevedibilità delle regole. Questa operazione di civilizzazione è stata tanto necessaria quanto costosa sul piano psichico, perché ha richiesto l’interiorizzazione di un superego collettivo estremamente esigente che monitora costantemente linguaggio, comportamenti e desideri.
Ogni denuncia morale, ogni scandalo rivelato, ogni trasgressione documentata di Berlusconi prima e Trump poi non fa che aumentare la loro carica trasgressiva e quindi la loro attrattiva. La sinistra continua a credere che limitarsi a esporne le malefatte basterà a disgustare il pubblico, quando in realtà sta fornendo esattamente il contenuto che alimenta la fascinazione. Pensa che appellandosi alla razionalità, alle norme, alle regole, finirà col riportare l’ordine, quando in realtà sta semplicemente ribadendo quella stessa costrizione normativa da cui molti cercano disperatamente di sfuggire. Ha offerto ancora più superego a persone che del superego non ne possono più.
Addendum per gli abbonati
La gente non segue i Berlusconi e i Trump perché “grandi amministratori”: figuriamoci. Li segue perché incarnano







