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Anatomia di una città che ha venduto il diavolo all'anima

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Andrea Colamedici
lug 22, 2025
∙ A pagamento
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ControMilano
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Nei cinque anni in cui ci ho vissuto, Milano mi ha dato molto: una certa disposizione metodica al lavoro, un’apertura mentale che una vera metropoli sa offrire, relazioni e opportunità che altrove sarebbero state impensabili. Ma mentre mi formava, inesorabilmente mi sformava. E mi toglieva molto più di quanto mi dava. Ogni giorno sentivo la morsa di quella che non è solo una città ma un enorme dispositivo di produzione, dove ogni momento di vita deve essere produttivo, ogni spazio deve generare valore, ogni relazione deve essere networking.

Sono scappato prima che la trasformazione diventasse irreversibile, prima che il ritmo della città-azienda mi colonizzasse completamente.

Perché Milano ti insegna a correre, ma non ti dice mai in quale direzione.
E non te lo dice perché non lo sa.

Milano poggia su uno strato di storytelling che è come l’aria nelle scarpe da ginnastica. Quelle bolle trasparenti delle Air Max che promettono di farti camminare sulle nuvole ma sono soprattutto un trucco estetico, un elemento di design che ne giustifica il prezzo fuori portata. La città funziona allo stesso modo: si regge su questo cuscinetto di narrazioni - il “modello Milano”, l'innovazione, la sostenibilità, l'internazionalizzazione - che dovrebbe ammortizzare l’impatto brutale del reale ma è puro marketing urbano.

Come nelle sneakers la bolla è visibile, ostentata, fa parte del prodotto. E nessuno nasconde che Milano sia costruita su strati di storytelling: anzi, è proprio quello che vende. La “narrazione” è diventata infrastruttura: si investe più in brand identity che in edilizia popolare. Il problema è che quando si rompe lo storytelling di Milano, quello che emerge è una città che ha sistematicamente espulso i poveri, finanziarizzato ogni metro quadro, trasformato il diritto all’abitare in un lusso per pochi.

Credo in un solo brand

E così si compete in una città dove l’architettura è diventata il linguaggio attraverso cui il capitale si autorappresenta e si legittima. Il Bosco Verticale ne è l’icona globale che viaggia su Instagram, e che trasforma Milano da grigia città industriale a capitale mondiale della sostenibilità. Poco importa che quegli appartamenti costino milioni di euro e che il “verde” sia accessibile solo a pochissimi: quello che conta è l’immagine, la narrazione, il brand. Milano diventa così la città dove il capitalismo si traveste da ecologia e la speculazione immobiliare si ammanta di retorica ambientalista. E, sotto, tutti ad applaudire.

Lo skyline milanese che si trasforma a ritmo vertiginoso è la materializzazione spaziale di un modello di accumulazione che ha nella mera rendita immobiliare per pochissimi il suo motore principale. I fondi del Qatar, i capitali cinesi, i grandi progettisti internazionali: Milano è diventata il loro terreno di gioco, e la politica locale è il croupier che si limita a dare le carte truccate.

Nel frattempo la città attrae i “talenti”, i “creativi”, i “knowledge workers” da tutta Italia e dall’estero. Li seduce con le promesse di opportunità, di dinamismo, di modernità. E loro, in cambio, forniscono al sistema il capitale umano e culturale di cui ha bisogno per riprodursi.

Una città fatta di persone che al “ciao, come stai?” rispondono “benestanche”, tutto attaccato, una parola sola: perché la stanchezza è il vero valore da ostentare in un luogo in cui mostrarsi occupati è un dovere sociale.

Milano ideologica

L’inchiesta giudiziaria svela come tutto si regga su un patto non scritto tra élite economiche e politiche: è la costruzione di un blocco di potere che include progettisti, archistar, politici, manager, professionisti, università. Tutti uniti dalla convinzione che quello che è bene per il business è bene per Milano, che la crescita immobiliare è progresso, che l’attrattività per gli investimenti è il metro ultimo del successo urbano.

È l’ideologia neoliberale che si fa senso comune, visione del mondo condivisa, orizzonte invalicabile del possibile.

Milano diventa così il simbolo di una mutazione antropologica prima ancora che urbanistica. I suoi abitanti hanno in buona parte interiorizzato la logica della città-impresa. Si sentono orgogliosi dei grattacieli che sorgono, della “Milano che corre”, del dinamismo che li distingue dal resto d’Italia. Non vedono - o fingono di non vedere - che questa corsa lascia indietro sempre più persone, che la città diventa inaccessibile, che interi quartieri vengono stravolti dalla gentrificazione.

È la vittoria culturale del capitale: far sì che i dominati si identifichino con i simboli del dominio.

La città viene ridisegnata per attrarre certi soggetti ed espellerne altri. I prezzi immobiliari funzionano come barriera invisibile ma efficacissima. La “rigenerazione urbana” diventa il nome pudico e scaltro dell’espulsione dei poveri. È un controllo dolce, seduttivo ma violentissimo.

Milano ha fatto qualcosa di più del classico patto faustiano. Non ha venduto l’anima al diavolo - sarebbe stato troppo banale, troppo provinciale. Milano, sempre all'avanguardia, ha invertito i termini: ha venduto il diavolo all’anima.

Cosa significa? Che la città ha convinto se stessa che il diavolo - la speculazione, la gentrificazione, lo sfruttamento - fosse in realtà l’anima stessa della città. Ha interiorizzato così profondamente la logica del capitale da non riuscire più a distinguere tra ciò che la corrompe e ciò che la costituisce.

Milano non si sente in colpa per essere diventata invivibile per i più: se ne vanta.

È una città spietata che forma soggetti perfettamente funzionali al capitalismo contemporaneo: efficienti, flessibili, sempre connessi, sempre disponibili, sempre di corsa. Sempre in competizione.

In questo senso, Milano è

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