Come stai?
Nuova Filosofia di Gruppo, stavolta per tutti
Come stai?
Ieri lo abbiamo chiesto nelle storie di Instagram.
Il fatto è che, dopo molto tempo passato a fare divulgazione sui social, da un paio d’anni a questa parte li abitiamo molto di rado. Anche prima eravamo consapevoli che fossero un luogo disfunzionale per la salute mentale ma i pro, ossia la possibilità di rendersi utili, di raggiungere molte persone, di giocare e sperimentare con uno strumento “nuovo” erano (o quantomeno, volevamo che fossero) più dei contro. Poi, con l’incremento del lavoro di scrittura, di docenza e di formazione, e con la percezione di obsolescenza e nausea del mezzo, abbiamo mollato la presa.
Senza dubbio, da quando siamo meno presenti online viviamo meglio perché riusciamo a concentrarci di più su quel che facciamo “fuori”, e non disperdiamo troppe energie in bagarre, polemiche e chiacchiericcio. Non ci sentiamo in dovere di commentare il fatto indignante del giorno né di farci sentire “presenti”, e la vita scorre comunque nel suo delirio, ma un po’ meno faticoso.
Durante la sua partecipazione al podcast Tintoria andata online qualche giorno fa, Caparezza spiegava che (vado a memoria) lui non scrive mai per il suo pubblico ma solo per se stesso, e lo fa proprio per rispetto per il pubblico. Concordo. Il fatto è che nel corso degli anni è nata intorno a Tlon una comunità piuttosto ampia, fatta di tante brave persone (ricordo un incontro pubblico con Rancore, il rapper, in cui parlando del tipo umano che segue Tlon gli dissi: “ognuno ha un pubblico che lo rispecchia: se li guardi sono esattamente come me e Maura, hanno la faccia di gente che potrebbe venir rapinata con facilità da un momento all’altro”. Memorabile la sua risposta: “Sì, verrebbero rapinati da quelli che seguono me”). In qualche modo sentiamo la responsabilità dei tanti che hanno letto i nostri libri e ci hanno seguito nelle nostre varie peripezie volte a offrire un qualche supporto (da filosofia di gruppo agli incontri di cimiterologia, dalle feste della filosofia alle letture silenziose, dai book party alle maratone di filosofia durante la pandemia).
Botanica della Meraviglia lo abbiamo scritto anche per questo, per fare un po’ il punto di tutte le avventure fatte negli anni e offrire degli strumenti concreti per affrontare questo tempo incerto e faticoso. Ad ogni modo, alla domanda “Come stai?” sono arrivate migliaia di risposte, che possiamo suddividere in tre macrocategorie:
1) A pezzi
2) Stanca/o
3) Di corsa
O un mix delle tre.
“Un costante senso di sopraffazione”, scrive S.; “Come un pulcino bagnato”, B.; “Stanchezza infinita”, F., e così via.
Non mancano i lirici: “Miseramente cara, superbamente a pezzi” (la mia preferita); “Mi pare che il leitmotiv del mio stato d’animo sia diventata l’angoscia”; “Come nella distopia che abbiamo visto avvicinarsi da anni, senza poterla evitare”.
Mi colpisce in queste risposte il fatto che non si tratti di infelicità nel senso classico, di un dolore localizzabile o di una mancanza precisa. È in ballo un rapporto devastato con il tempo: non ce n’è abbastanza, quello che c’è è frantumato, e il poco che resta viene consumato nel tentativo di ricomporsi. È una forma di sofferenza che non ha oggetto, o meglio, il cui oggetto è la struttura stessa dell’esperienza. Quando qualcuno dice “di corsa” sta descrivendo una condizione ontologica: il tempo non è più il medium in cui si vive, è diventato un predatore.
Mi viene in mente una distinzione che faceva Byung-Chul Han tra stanchezza solitaria e stanchezza fondamentale. La prima isola, la seconda (quella che nasce dal fare insieme, dal condividere un’impresa) apre spazi di comunità. Il problema è che la stanchezza che emerge da questi messaggi è quasi interamente del primo tipo: una fatica che separa, che rende incapaci di stare con gli altri proprio nel momento in cui se ne avrebbe più bisogno. Si è troppo esausti per connettersi, e l’isolamento esaurisce ulteriormente. Il circolo è perfetto nella sua crudeltà.
C’è poi una manciata di messaggi che mi ha colpito: “Sono felice e di questo mi vergogno”. Ecco, siamo arrivati al punto in cui stare bene richiede una giustificazione, quasi una scusa. La sofferenza è diventata di default, e chi ne è (temporaneamente?) esente si sente in difetto, come se tradisse una solidarietà implicita. È una forma sottile di ricatto collettivo, certo non intenzionale, che però rende impossibile anche la gioia: se stai male sei schiacciato, se stai bene ti senti in colpa. Non c’è uscita in nessuna delle due direzioni.
Alla luce dei messaggi, abbiamo allora chiesto nella storia successiva:
Cosa potrebbe esservi d’aiuto? Possiamo essere utili in qualche modo?
Domanda rischiosa per noi (infatti l’ha fatta Maura, io me ne guardavo bene dal porla), perché il bilanciamento tra il bisogno di mettersi a disposizione e la necessità di custodire la propria sanità mentale è uno dei punti focali dello spirito di servizio (ne abbiamo parlato giusto un paio di giorni fa a Bergamo, agli Stati Generali del Volontariato. Qui un’intervista sul tema). Aiutare gli altri, abbiamo detto in quell’occasione, è un atto che si fa anzitutto per se stessi, perché si sente il bisogno di abitare un senso. Parlando con diversi volontari di più settori (mense, sangue, anziani, senzatetto) abbiamo ricevuto moltissime volte la stessa risposta:
“è molto di più quel che ricevo di quel che do”.
Insomma, l’altruismo è un egoismo ben riuscito, se lo si sa praticare. In una società che obbliga a pensare anzitutto a sé, spesso sfugge la gran soddisfazione che si prova nel donarsi. Pensare solo a se stessi significa vivere assediati, ossessionati dalla percezione di doversi proteggere dagli assedi di ogni altro. Bisogna trovare il giusto bilanciamento, però, perché donarsi senza dosarsi è il modo migliore per distruggersi e poi non donarsi più, finendo col danneggiare se stessi e gli altri.
Ora, prima di arrivare al tema, e cioè: cos’hanno risposto le persone che ci seguono?, una cosa.
Mi ha sempre impressionato la definizione di seguaci o follower, soprattutto perché non ho mai avuto nessuna idea, neanche vaga, di dove io stia andando. Ho cura di sapere come sto andando, ma una direzione garantisco di non averla mai avuta. L’immagine di queste persone (tra cui forse tu che leggi) che mi e ci seguono senza meta mi colpisce e ci tengo a precisare che, appunto, non stiamo andando da nessuna parte. Che poi è un po’ quel che dice Don Juan a Castaneda quando lo invita a “seguire la strada con un cuore”. Quel che manca nella citazione classica di questo passaggio è il pezzo successivo, in cui lo sciamano spiega che «tutte le strade sono uguali; non portano da alcuna parte. Sono strade che passano attraverso la boscaglia o che vanno nella boscaglia»:
«Questa strada ha un cuore? Se lo ha la strada è buona. Se non lo ha non serve a niente. Entrambe le strade non portano da alcuna parte, ma una ha un cuore e l’altra no. Una porta un viaggio lieto; finché la segui sei una sola cosa con essa. L’altra ti farà maledire la tua vita. Una ti rende forte; l’altra ti indebolisce».1
Ma eccoci finalmente al punto: cos’è che secondo i nostri seguaci senza meta potrebbe essere d’aiuto? Qui due screenshot esemplificativi dalle risposte ricevute.
A parte il “mettere fine al capitalismo” e “la rivoluzione” che sono un tantino fuori portata (per quanto forse siano un po’ il punto centrale della questione), per il resto delle risposte il senso più diffuso è “continuate a fare quello che fate” e “fateci sentire pensati”. Il che mi ha un po’ commosso, lo ammetto. Alcuni messaggi, poi, citano la possibilità di creare una rete di supporto per rompere l’isolamento. Non tanto spazi guidati da noi (che siamo solo due, e io tendenzialmente sarei un misantropo), ma un momento in cui sapere che c’è qualcuno di affine. Dopo la crisi dei luoghi di ritrovo fisici, le persone vivono un senso radicale di isolamento iperconnesso. Servirebbe qualcosa, credo sia l’idea di chi ha scritto quei messaggi, che le aiuti ad arcipelagarsi (sono molto soddisfatto di questo neologismo che ho appena coniato, che all’inizio suona strano ma dopo poco ci si abitua).
Ora, è in parte quel che abbiamo fatto negli anni, in particolare con le librerie, con Filosofia di Gruppo e i Party Letterari, che erano incontri di celebrazione dell’amore per i libri in collaborazione con Robinson.2
E allora, che altro fare? La tentazione sarebbe quella di proporre qualcosa di grande, all’altezza del problema. Ma forse il punto è proprio questo: continuiamo a cercare soluzioni che abbiano la stessa scala del disastro, e così facendo ne riproduciamo la logica. La risposta al tempo frantumato non può essere un altro progetto grandioso che richiede energie che non abbiamo. Dev’essere qualcosa di più modesto e più concreto, che non pretenda di risolvere ma che permetta di sostare.
Per questo ho deciso di dedicare il prossimo incontro di Filosofia di Gruppo a questa domanda: come stai?, e di estenderlo stavolta a chiunque voglia partecipare (di solito è solo per gli abbonati alla newsletter). Per fermarsi insieme un’ora e mezza a rispondere a quella domanda. Senza dover produrre nulla, senza dover ottimizzare il tempo, senza l’ansia di stare altrove. Un gesto minimo, quasi insignificante rispetto alla portata del malessere. Ma credo sia in questi gesti che si riapra qualcosa, proprio perché non hanno alcuna pretesa di essere all’altezza.
Per stavolta, quindi, ci vediamo con chi vuole sabato 13 dicembre alle 21 su Zoom, qui.
Un abbraccio,
Andrea
p.s. Io sto scrivendo quindi sto molto bene, grazie.
Carlos Castaneda, Gli Insegnamenti di don Juan, Rizzoli, Milano 2013, p. 211
Avevamo creato un gruppo Telegram (ancora attivo) con cui le persone in giro per l’Italia potevano creare in autonomia Party Letterari sotto l’ala di Tlon. L’iniziativa è scemata dopo qualche mese, anche se alcuni valorosi continuano a vedersi e a organizzare incontri di lettura.







Leggendo questo post mi è venuto in mente che è vero: vi somigliamo come vostri sostenitori...ma ci somigliamo anche tra di noi (almeno così mi è sembrato dagli incontri di gruppo). E quando scrivi che non potete essere presenti a tutti gli incontri anche per il vostro benessere, mi è venuta in mente un'idea! Sarebbe bello se oltre alla stanza del silenzio per le letture ci fosse anche una stanza dell'ascolto. Stavolta la immagino ristretta: con 2 persone che senza conoscersi si ritrovano in uno spazio virtuale sicuro (per sicuro intendo la certezza di trovare gente che frequenta questa community). Ogni volta si trova magari una persona diversa, ma in uno spazio in cui ci si può scambiare opinioni, ascoltarsi e parlarsi. Un modo forse per sentirsi più vicini, più simili, più parte di qualcosa. Sarà difficile da realizzare però ho avuto quest'immagine leggendo...
Sto bene consapevolmente in viaggio.
Grazie!!!
Uno degli intenti: abbattere lo strapotere dei soldi.
Buona giornata a tutti